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“Non siamo mai stati moderni”, eppure…

“Non siamo mai stati moderni”, eppure…

IL MODERNISMO

La spinta propulsiva della Seconda Rivoluzione Industriale nella seconda metà dell’Ottocento stravolge i paradigmi che fino a quel momento avevano dominato la società e la trasforma profondamente. Le prospettive teoriche della modernità sono la volontà illuminista di emancipazione dai dogmi religiosi, l’idea hegeliana[1] del trionfo della razionalità (“Ciò che è razionale è reale; e ciò che è reale è razionale”), le ideologie egualitarie e totalizzanti, lo sviluppo dell’economia e della ricchezza, l’onnipotenza della scienza e della tecnica e l’idea di una giustizia universale. Come sottolinea anche Eugeni[2]: “Le nuove macchine della modernità entrano ora in vario modo nella sfera esperienziale dei soggetti sociali (…) I nuovi apparati tecnologici finiscono dunque per ristrutturare le condizioni e le forme dell’esperienza ed in particolar modo le categorie dello spazio e del tempo” che subiscono una violenta contrazione e frammentazione.

La principale conseguenza di una simile trasformazione è la costituzione di una netta opposizione tra ciò che è naturale e ciò che è artificiale. Sempre da Eugeni, “l’esperienza degli apparati tecnologici di nuova generazione sembra sottrarre il soggetto al proprio ambito di appartenenza originario per costringerlo a relazionarsi con dispositivi che sono in linea di massima estranei alla sua natura”. L’opposizione naturale/artificiale si consolida così attorno all’idea mitica di uno scontro dualistico ed antitetico al cui fulcro, nonché luogo di negoziazione tra tali estremi, trovano posto i media.

Questo andamento mitografico trova il suo versante <euforico> di maggiore rilievo nel secondo dopoguerra, con lo sviluppo di una pubblicità volta a dare lustro e credito alla massiccia artificializzazione dell’esperienza a seguito del boom economico; contemporaneamente la Guerra Fredda rafforza le credenze riguardanti l’esistenza di due realtà ontologiche distinte che non possono in alcun modo conciliarsi. Sostiene Bruno Latour[3] che il modernismo operi in questo senso un lavoro di “depurazione” su più livelli, volto cioè a creare dicotomie senza soluzione: la prima riguarda la già accennata opposizione naturale/artificiale che Latour traduce nella separazione tra natura e società, natura e cultura; la seconda riguarda invece l’opposizione umano/non-umano, tra gli uomini e le “cose”, il loro contesto, ma anche tra l’uomo e il “non-uomo”[4] con un insindacabile giudizio morale. La dicotomia oppositiva, lungi dall’allontanare le due realtà ontologiche, finisce per renderle testimonianza l’una dell’altra, legittimandole reciprocamente ed è una legittimazione che vincola profondamente i due statuti, in quanto l’uno è tutto ciò che l’altro non è.

Exemplum per eccellenza del rapporto di negoziazione operato dai media tra due realtà ontologiche (umano/non-umano, ma anche naturale/artificiale) è sicuramente il programma radiofonico presentato dall’allora ventitreenne Orson Welles “La guerra dei mondi” (1938): l’ipotetica invasione aliena fu raccontata con una verosimiglianza tale – anche grazie ad opportuni usi strategici del mezzo, quali dare gli annunci interrompendo altri programmi – da avere conseguenze dirette sugli utenti che l’ascoltarono; molti, non contemplando l’ipotesi che si trattasse di una fiction radiofonica ben orchestrata, reputarono vere le notizie e si fecero prendere dal panico. L’alterità, l’opposto dicotomico, è un tema caro anche al film sviluppato sullo stesso materiale, “La guerra dei mondi” (1953) di B. Haskin, che può essere letto, alla luce di quanto detto finora, come un inconsapevole manifesto di “dissidenza” modernista: se l’alieno è il non-umano per eccellenza, è evidente un’altra opposizione che compone il nucleo semantico del film, quella tra naturale ed artificiale – dove artificiale ha chiaro intendimento di “tecnologico”. Il “non-umano” ipertecnologico è sconfitto dal naturale “terrestre” (e quindi umano): i germi. Un’interpretazione possibile vorrebbe che questa sia la voce di quanti resistono a quella “massiccia artificializzazione dell’esperienza” di cui parlavamo prima e che identificano in modo univoco il loro rifiuto ad accettare le narrazioni dominanti della modernità – tra le quali l’emancipazione dai dogmi religiosi, che nel film è simbolicamente rappresentata dalla morte del reverendo, ma anche l’onnipotenza della scienza e della tecnica, che nel film dimostrano tutta la loro vulnerabilità alla realtà naturale.

Sarà solo qualche anno più tardi che sul versante <disforico> fioriranno prodotti culturali apertamente di “dissidenza”, volti a sottolineare le criticità delle fallite prospettive moderniste, incarnate dai totalitarismi che hanno condizionato e stravolto il mondo nel corso del Novecento. Rientrano in questa concezione <disforica> i lavori exemplum di George Orwell come “La fattoria degli animali” (1945) o “1984” (1949), ma anche “Fahrenheit 451” (1960) di Ray Bradbury e “La svastica sul sole” (1962) di Philip K. Dick. Fu proprio durante la lavorazione di quest’ultimo libro che P. K. Dick iniziò a contemplare il nucleo tematico alla base di “Ma gli androidi sognano pecore elettriche?” (1968): l’idea che un essere umano possa compiere atrocità simili, quali quelli perpetrate dai nazisti sugli ebrei, portò Dick a delineare il cuore “dissidente” del suo libro, in quanto tratta in maniera diretta l’opposizione tra naturale e artificiale. Se il libro presenta una complessità di argomenti, con una caratura ecologica rilevante, tale da poter aprire moltissimi dibattiti, la sua trasposizione cinematografica – “Blade Runner” (1982) di R. Scott – ha il vantaggio di concentrarsi solo su alcuni dei temi presentati da Philip K. Dick. Le conclusioni circa libro e film saranno così trattate separatamente. La trama ruota attorno, in una futuristica città[5] del 2019, ad un gruppo di replicanti scappati dalle colonie extramondo, a cui deve dare la caccia il poliziotto Rick Deckard: in questo futuro prossimo l’essere umano ha trovato il modo di generare replicanti simili in tutto e per tutto all’uomo, con la differenza di avere una vita molto più breve, di soli 4 anni, e capacità intellettive e fisiche fuori dall’ordinario. Nel corso della storia Deckard avrà l’occasione di confrontarsi con l’interrogativo a monte di tutta l’opera: cosa significa essere un uomo? E cosa distingue l’uomo da un replicante? Di primo acchito la risposta parrebbe ovvia – la mancanza di empatia verso gli animali e verso i propri simili: il libro “Ma gli androidi sognano pecore elettriche?” si concentra in modo prioritario su questo aspetto ed è così testimonianza di un mondo in cui naturale ed artificiale, pur restando ad una certa distanza, si compenetrano e finiscono con il legittimarsi reciprocamente: come abbiamo già avuto modo di dire, è una legittimazione che vincola profondamente i due statuti, in quanto l’uno pare essere tutto ciò che l’altro non è. Tuttavia, l’entrata in scena di Rachel, replicante senza saperlo, stravolge profondamente questa inconciliabilità e mette in scena il dramma tutto “umano” della ricerca di se stessi e della rinuncia ad una verità universale cui appellarsi operando le proprie scelte. Il film infatti, a differenza del libro, costruisce un’opposizione naturale/artificiale dialogica incarnata in Deckard e Rachel a cui si deve la bontà di passare attraverso il dubbio (il primo incontro tra i due si risolve in un test per qualificare Rachel come replicante), lo scontro (Rachel affronta Deckard per scoprire la verità riguardo la sua natura), la riconciliazione (l’ammissione di sentimenti da parte di Rachel è una presa di posizione che sconvolge la verità stessa sui replicanti) ed il ribaltamento (il regista, con espedienti cinematografici, riesce ad instillare il dubbio circa la presunta “umanità” di Deckard: è un uomo o un replicante?). “Blade Runner” è il superamento della rigida dicotomia naturale/artificiale perché annichilisce tutte le certezze costruite su di essa e sovverte l’ordine con cui si guardano i soggetti: non ha più valore la linea che demarcava uomini e replicanti, proprio perché “la costituzione modernista” con cui si era fino a quel momento osservato il mondo viene meno, e con essa anche le sue rigide dicotomie fondatrici. Così come Deckard potrebbe non essere mai stato “umano”, per Latour allo stesso modo potremmo “non essere mai stati moderni”. “Blade Runner” anticipa così quella che sarà la fine del mondo moderno: tra il 1989, con il crollo del Muro di Berlino, e il 1991, con lo scioglimento dell’Unione Sovietica, il trionfo “del liberalismo, del capitalismo, delle democrazie occidentali sulle vane speranze del marxismo”[6] rappresentano anche la loro stessa estinzione. Fallisce la speranza di una conquista illimitata e di dominio totale sulla natura e fallisce il tentativo di abolire lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. L’architrave narrativo che sosteneva il mondo occidentale scricchiola.


NOTE

[1] G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto. Diritto naturale e scienza dello Stato in compendio [1821], trad. it. di G. Marini [1987], Laterza, Roma-Bari

[2] R. Eugeni, La condizione postmediale (2015), Editrice La Scuola, p. 42

[3] B. Latour, Non siamo mai stati moderni (1991), Edizioni Elèuthera 1995

[4] Latour indica con “umano” l’uomo moderno: è importante sottolineare la valenza che ha nel contesto antropologico ed etnografico, perché secondo Latour l’intera “costituzione” ad opposizioni binarie è lo strumento usato dai “moderni” per giustificare il colonialismo e l’imperialismo dei paesi occidentali.

[5] Si tratta di Los Angeles per il film e di San Francisco per il libro.

[6] B. Latour, Non siamo mai stati moderni (1991), Edizioni Elèuthera 1995, per maggiori dettagli si veda pp. 20-22 “Il miracoloso 1989”

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