La Naturalizzazione Tecnologica
Se durante la fase di consolidamento (1915 – 1980), come raccontato in un precedente articolo, si era trovato un equilibrio tra pervasività sociale e individuabilità dei media, nella fase di vaporizzazione (1980 – oggi), che vede l’avvento dei media digitali, c’è un ulteriore spinta alla pervasività sociale: tale tendenza comporta in misura evidente la de-individuazione dei dispositivi (intesi come situazioni sociali specificatamente dedicate ad un medium); come sottolinea anche Eugeni infatti “i media si sono completamente riversati e fusi all’interno dei differenti e sempre più coesi apparati tecnologici, tanto che la questione del dove si fermi una tecnologia in generale e inizi una tecnologia mediale non possiede alcun senso”[1]. È possibile ravvisare alcuni fenomeni circa la de-individuazione dei dispositivi e la fine dei mass media tradizionali: in primo luogo non vi è più una chiara distinzione tra i diversi media, in secondo luogo alcuni dispositivi tradizionali vengono rilocati, ed infine i dispositivi mediali che riescono a farlo si integrano con apparati sociali non mediali, fondendosi con essi.
Henry Jenkins[2] parla, a questo proposito, di convergenza: la logica di sviluppo seguita dai media vorrebbe portare tutti i dispositivi a fondersi in un unico meta-medium, capace di svolgere tutte le funzioni precedentemente ascrivibili a media diversi. Unitamente alla convergenza tecnologica appena descritta, si afferma anche la convergenza mediatica, o narrazione transmediale[3], intesa come un “flusso di contenuti su più piattaforme, la cooperazione tra più settori dell’industria dei media e il migrare del pubblico alla ricerca continua di nuove esperienze” [4]. Lo scenario dei nuovi media digitali, fusi con gli apparati sociali e invisibili agli occhi del soggetto, può essere allora descritto, secondo Jenkins, da otto caratteristiche utili a contestualizzarne il fenomeno: è uno scenario come abbiamo detto convergente (nell’ottica sia di convergenza tecnologica, sia di narrazione transmediale), innovativo, quotidiano (in quanto vi è una totale pervasività mediale), interattivo (grazie a tali media possiamo interagire in modo diverso con i contenuti, la rielaborazione è alla base della creatività), partecipativo (l’avvento dei social network ha modificato profondamente lo statuto della tecnologia, animando uno spazio virtuale identitario che ci lega a doppio filo alle tecnologie mediali), globale, generazionale ed ineguale (il digital divide descrive la diseguaglianza che vige in questo scenario).
Soffermiamoci un momento sulla natura “quotidiana” che i media hanno assunto: possiamo constatare come tale pervasività comporti anche un mutamento nel modo di concepire il media stesso. Se prima infatti il medium, come dispositivo tecnologico, era distinto ed altro rispetto alla “naturalità” del soggetto, ora tenta di nascondere le sue fattezze, mimetizzando i propri apparati. Il passaggio da mass media tradizionale (ascrivibile ad un preciso dispositivo sociale e quindi definibile in base alla sua natura “altra” rispetto al contesto naturale) a media digitale “quotidiano” (invisibile agli occhi del soggetto in quanto capace di celare la propria natura[5]), implica anche il passaggio da una narrazione di “dissidenza” ad una narrazione maggiormente inclusiva, conciliante ed unitaria; dove per narrazione di “dissidenza” si intende una narrazione sviluppata dal modernismo in chiave mitologica, quale scontro tra antitesi, e dal postmodernismo come rifiuto di quel conflitto, sulla base di un ripiegamento su di sé che implica la rottura di ogni rapporto con il “naturale”. È possibile allora tentare, seguendo lo schema proposto da Walter Benjamin[6] e sviluppato da Eugeni, un raffronto tra le diverse modalità di comunicazione sociale, ascrivibili nella triade che vorrebbe assimilare il mito (nella sua costruzione dualistica, conflittuale ed inconciliabile) alla tradizione modernista; il romanzo (nella sua frammentarietà e soggettività) alle spinte postmoderniste; e l’epica (come racconto comunitario, corale e collettivo) alla recente amodernità.
L’amodernismo[7] infatti, come condizione di superamento dei media tradizionali o come condizione postmediale, ha bisogno di una narrazione capace di tutelarlo dalla vaporizzazione che ne caratterizza le dinamiche: l’universo sconfinato di micromondi, generati in infiniti modi dalla rete, è così reso unitario dalla grande narrazione trasversale della naturalizzazione tecnologica, laddove i media si compenetrano con la società e l’identità individuale di ognuno non è più scindibile dalla sua controparte virtuale. Si ha così “l’avvento di una nuova generazione di apparati tecnologici non più opposti come nel passato alla naturalità dei soggetti che li adoperano e del mondo che li circonda, ma al contrario capaci di generare un meta-mondo natural-culturale (…) l’amodernismo si fonda come epos dell’interazione ininterrotta tra téchne e bìos”[8]. È in questo contesto che si inserisce il film “Avatar” (2009) di J. Cameron. La trama ruota attorno a Jake Sully, ex marine paraplegico, che per una serie di circostanze si trova costretto a prendere parte ad una missione sul pianeta Pandora, abitato dal popolo Na’vi. I nativi sono fedeli al culto della “natura interconnessa”, sono cioè in grado di accedere alla conoscenza del mondo grazie alla treccia dei loro capelli che funziona come un vero e proprio cavo di connessione: Pandora si presenta così come una rete di vita, informazioni ed energia. La spedizione a cui partecipa Jake tuttavia ha una scopo bivalente, da un lato infatti un gruppo di scienziati cerca di entrare in contatto con gli indigeni al fine di indagarne la cultura – questa possibilità è anche avallata dalla traslazione di corpi: Jake per entrare in contatto con i Na’vi prenderà le sembianze di un Na’vi, ovvero usufruirà di un Avatar – dall’altro lato i finanziatori della missione cercano di estrarre dal pianeta un prezioso minerale: questi secondi, a seguito dello scoppio del conflitto tra le parti, saranno sconfitti dall’intera Pandora e Jake sceglierà di restare per sempre nel corpo Na’vi, diventando di fatto uno di loro.
Il tema della “natura interconnessa” su base reticolare è a tutti gli effetti una sorta di “intelligenza collettiva”, come descritta dal cyberteorico Pierre Lévy[9]: è infatti una “intelligenza distribuita ovunque, continuamente valorizzata, coordinata in tempo reale, che porta a una manipolazione effettiva delle competenze”, sulla base del principio che “nessuno sa tutto, ognuno sa qualcosa”. Secondo Lévy tale intelligenza sarebbe possibile grazie allo sviluppo delle tecnologie digitali, che sradicando il soggetto dalla sua corporeità, lo inseriscono in una comunità mediale – pur sempre reale – in cui il flusso costante di informazioni garantirebbe meccanismi di autoregolazione bottom-up[10]. Come nell’esempio di Avatar infatti: la cultura Na’vi si fonda proprio su meccanismi di questo tipo, in cui la condivisione del sapere su base collettiva permette l’evocazione di una connessione globale che rende tutti i soggetti interdipendenti e legati tra loro. Legami simili vengono indagati anche da un altro sociologo, Derrick De Kerckhove[11], che partendo dalla proposta di Levy, postula l’idea di una “intelligenza connettiva”: tale tipo di intelligenza si affida alla moltiplicazione delle intelligenze, favorita dalla connessione, piuttosto che alla loro somma, situata nel “collettivo” (“il tutto è più della somma delle sue parti”); infatti la Rete porta la connettività dentro la collettività e, contemporaneamente, dentro l’individualità.
Non viene difficile pensare Pandora allora come un sistema completamente cablato, contemporaneamente additivo di conoscenze e moltiplicativo di intelligenze: ognuno ne è parte integrante e partecipa in modo specifico alla sua costituzione, alla stregua del mondo digitale e social che conosciamo oggi. Deleuze[12] direbbe che questo è un particolare tipo di intelligenza rizomatica in quanto: [a] è decentrata, [b] è identica in ogni sua parte e significante allo stesso modo in ogni sua parte, [c] è connessa in ogni sua parte, [d] non prevede un’unità di riferimento e [f] non sottostà a nessun modello strutturale o generativo. Ma come si lega “Avatar” al concetto di amodernismo? L’ipotesi di Eugeni[13] è che se ad una prima lettura “Avatar” pare raccontare il conflitto mitico tra natura e tecnologia – nel suo intendimento più modernista – in realtà tratta una contrapposizione ben diversa: quella tra due differenti forme e concezioni di tecnologia. Da un lato, incarnato nell’essere umano con protesi meccaniche, vi è la concezione del mass media tradizionale e della tecnologia “elettronica e possente” volta allo sfruttamento delle risorse; dall’altro lato invece i Na’vi sono portatori di una tecnologia completamente trasfigurata in natura, che si fa portavoce della tecnologia mediale contemporanea – descritta dall’intelligenza “collettiva” e “connettiva” di cui abbiamo avuto modo di parlare sopra. Sostiene Eugeni che “il tema profondo di Avatar è dunque la percezione di una condizione di vita ipertecnologizzata e ipersocializzata quale forma di esperienza <naturale>” che va a fondamento dell’intero arco narrativo epico – con un respiro collettivo, comunitario e unitario – dell’amodernismo: la naturalizzazione dell’esperienza tecnologica.
NOTE
[1] R. Eugeni, La condizione postmediale (2015), Editrice La Scuola, pp.46
[2] H. Jenkins, Cultura convergente (2006), Apogeo
[3] La narrazione transmediale è “una forma narrativa che, muovendosi attraverso diversi tipi di media, contribuisce a perfezionare ed integrare l’esperienza dell’utente con nuove e distinte informazioni. Ogni medium, veicolando nuove e distinte informazioni, contribuisce allo sviluppo della storia e alla comprensione del mondo narrato. In questo modo l’utente è chiamato a ricostruire il significato complessivo di un’opera integrando vari media”. Da H. Jenkins, Cultura convergente (2006), Apogeo
[4] H. Jenkins, Cultura convergente (2006), Apogeo, pp. xxv
[5] Da Eugeni, La condizione postmediale (2015), pp. 46: “Qualunque aspetto della tecnologia contemporanea possiede oggi alcuni aspetti e alcune funzioni precedentemente riservate ai media – ovvero forme di cattura, memorizzazione, manipolazione, trasmissione, esibizione e ricezione di informazioni”.
[6] W. Benjamin, Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nicolai Leskov (1936), Einaudi, Torino (1962), pp.247-274
[7] L’amodernismo è la proposta teorica di Eugeni e non un movimento collettivamente riconosciuto alla stregua di modernismo e postmodernismo. Si tenta qui di dare a questa proposta un’analisi di ampio respiro che lo contestualizzi a partire dai due precedenti movimenti.
[8] R. Eugeni, La condizione postmediale (2015), Editrice La Scuola, pp.79
[9] P. Levy, L’intelligenza collettiva. Per un’antropologia del cyberspazio (1996), Feltrinelli
[10] La progettazione bottom-up prevede che le parti individuali del sistema siano specificate in dettaglio, e poi connesse tra loro in modo da formare componenti più grandi, a loro volta interconnesse fino a realizzare un sistema completo. Le strategie basate sul flusso informativo bottom-up sembrano potenzialmente necessarie e sufficienti, poiché basate sulla conoscenza di tutte le variabili in grado di condizionare gli elementi del sistema.
[11] D. De Kerckhove, L’architettura dell’intelligenza (2001), Torino, Testo & immagine
[12] G. Deleuze, F. Guattari, Millepiani. Capitalismo e schizofrenia (2003), Castelvecchi, Roma
[13] R. Eugeni, La condizione postmediale (2015), Editrice La Scuola, pp. 35-36